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E tu quanto sai e quanto credi?


Quando ho letto questo aforisma del magico Nietzsche mi è venuto in mente un altro suo pensiero in cui invita le persone ad uscire dalla paura di affrontare il cambiamento etichettandoli come soggetti che preferiscono rimanere aggrappati alle illusioni piuttosto che comprendere la realtà. Ebbene il post in oggetto non si differenzia molto, solo che fa uso di due termini ben specifici “sapere” e “credere”. Per anni mi son chiesto quanta importanza avesse la “conoscenza” rispetto alla “consapevolezza” e per migliaia di volte ho cercato di arrivare all’idea che quest’ultima vale molto di più della prima, ma alla fine non ci sono mai veramente riuscito altrimenti non continuerei a fare seminari cercando di dare informazioni di carattere molto tecnico a volte se vogliamo, aspetti genealogici ed emozionali tali da essere compresi attraverso il loro “principio matematico”, del tipo: a seconda di come ha vissuto i sensi di colpa la nonna così questi influenzeranno sui limiti affettivi che la generazione dei nipoti potrà vivere e così via. D’altro canto però mi son permesso di fare una riflessione, vale di più tutta questa conoscenza ripeto quasi “matematica” o è piuttosto necessario comprendere come girano dentro noi le emozioni per poi riuscire a trascendere le nostre paure? Sono arrivato ad una semplice ma sicuramente incompleta conclusione, ossia che esistono principi secondo i quali un’infanzia ed una adolescenza vissute con sofferenza, e con questo mi riferisco soprattutto al mancato pieno riconoscimento del valore del soggetto in famiglia. Egli necessita di passare una fase di sblocco di tipo strettamente “mentale” attraverso il quale poter seguire delle onde ben specifiche di informazioni per poter “osservare” bene le proprie emozioni. Questo perché in una persona ferita non è facile dire “parti dal tuo trauma” è più facile partire con un approccio strettamente scientifico, un modo staccato di agire su se stessi, tanto da permettere al soggetto di fare delle piccole e semplici, ma non dolorose osservazioni. E così passano gli anni ed il soggetto “dandosi il permesso” comincerà con più facilità a riconoscere aspetti emotivi che non avrebbe compreso in altra forma. Immagina invece un soggetto cresciuto in un ambiente completamente Illuminato, cosa impossibile sul piano umano attuale se mi posso permettere, non avrebbe emozioni di giudizio, tensioni che non gli permetterebbero guardarsi ancor più in profondità, perché non ci sarebbero forme di dolore e blocchi tali da dire “no preferisco rimanere aggrappato alle dipendenze piuttosto che cercare la felicità”. Poi esiste un altro piano che richiede tecnicamente una figura femminile nella famiglia poco disturbata nel vissuto famigliare, cosa difficile considerando le presenze aggressive talvolta di suocere ed altri soggetti. Mi riferisco alla storia di anche cinque generazioni, non mi riferisco strettamente a tua madre, lei è solo una conseguenza di un lungo vissuto generazionale. Questo piano prevede la capacità di affidarsi pienamente all’Universo e “credere” per ottenere l’informazione necessaria per arrivare a comprendere un’emozione. Ho fatto riferimento al femminino ferito in famiglia perché la fede (ossia la capacità di credere che riusciamo ad ottenere ciò che esprimiamo come intenzione, desiderio) per esprimersi ha bisogno di un campo libero dove le donne possano manifestare la propria femminilità e creatività al completo, cosa impossibile considerando tutti gli aborti che le nostre famiglie hanno tristemente vissuto e tutti i massacri di uomini che non avendo avuto una madre calorosa hanno manifestato la propria tensione in famiglia traducendo il calore dell’affetto in calore dell’aggressività mascolinizzando le donne in balia di un necessario sistema di difesa per sé e per il nucleo. Quindi che fare? Ritornerò su questo argomento almeno altre mille volte forse, per ora ti consiglio di cominciare ad osservarti ogni volta che entri in uno stato di tensione e chiederti ancora se è conveniente a te e a tutte le future generazioni.

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